Olivicoltura: da Delo a San Francisco. Le nuove sfide per l’olio extravergine

Campo di olivi
Mentre la disciplina nazionale e comunitaria si avvia nella ricerca di nuove disposizioni sanzionatorie, e il mondo della comunicazione punta il dito ora su uno scandalo (triangolazioni magiche col quali olive tunisine divengono italiane, via New York) ora su altro, continua la poca attenzione sui temi che sono sui tavoli internazionali. L’autore (avv. Daniele Pisanello) spiega come i nuovi marketing standard in discussione, in prospettiva, possono danneggiare ben più di azioni piratesche, pur generalizzate. E’ noto d’altronde che, a rigore, contraffare è una “formalità”, una questione di definizioni.


Taranto, 1899. L’imperatrice Vittoria (nata Vittoria di Sassonia-Coburgo-Gotha), imperatrice di Germania e Regina di Prussia sbarca dalla sua nave nella città dei due mari, ospite del senatore Lacaita. Le cronache raccontano che alle 15.30 Sua maestà, su richiesta del padrone di casa, pianta un albero di ulivo, ancor oggi vivente, nel giardino della villa Leucaspide. Propagare l’ulivo è da tempo immemore considerato ben augurante in diverse aree del Mediterraneo.

Nella Grecia antica alla nascita di un fanciullo un giovane ulivo veniva piantato quale migliore auspicio. Secondo una delle tante leggende tramandate dalla mitologia greca (Pfister e Kerency) Apollo ed Artemide avrebbero avuto il loro primo vagito all’ombra di un ulivo, a Delo. L’estrema meditazione di Cristo si tenne nell’orto degli ulivi.

Più tardi, nella letteratura e nelle arti medievali la coltivazione dell’ulivo continua ad essere elemento simbolico di sostentamento e bellezza del paesaggio: Dante fa comparire Beatrice “cinta d’uliva” (Purgatorio, XXX canto “sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve”) mentre Petrarca, nel Canzoniere, declama “L’oliva è secca, et è rivolta altrove / l’acqua che di Parnaso si deriva, per cui in alcun tempo ella fioriva” (CLXVI, 9-11).

Centralità dell’olio di oliva nella cultura

La centralità dell’ulivo e del suo principale prodotto, l’olio di oliva, è connotato comune a tutte le società legate al mare nostrum. Per tale motivo si diceva, un tempo, che i confini del Mediterraneo seguissero quelli della olivicoltura.
Con la scoperta – e la conquista – delle Americhe, l’allevamento della pianta cara ad Atena attraversa l’Atlantico: gli archivi storici registrano coltivazioni sin dal 1560 in Messico e più tardi in Perù, California, Argentina e Cile. Dal secolo XIX, anche in Australia.
Oggi, i sedici Paesi aderenti al Consiglio Oleicolo Internazionale (COI), tutti rivieraschi il mar Mediterraneo (vedi tav. 1), ricoprono quasi il 95% dell’intera produzione mondiale.

I tempi sembrano volgere ad un cambiamento.

La diversificazione delle zone di coltura e i cambiamenti negli stili di consumo avranno riflessi sugli equilibri futuri del mercato dell’olio di oliva, in particolare sulla definizione degli standard per la commercializzazione sui mercati internazionali. Quanto è avvenuto per il vino, con l’affermarsi di nuovi Stati produttori, sembra destinato presto o tardi a replicarsi anche per l’olio di oliva.

Le avvisaglie ci sono già.

È significativo il raffronto di alcuni dati: se nel periodo 1995-2002 la produzione nei paesi COI è stata pari al 94,1% del totale mondiale, nel periodo 2003-2009, la produzione è leggermente diminuita (93,6%). Una variazione forse trascurabile che, però, fa il paio con l’aumento produttivo dei nuovi paesi (Australia, Argentina, USA e Turchia in testa), che, negli stessi periodi di riferimento, sono passati dal 5,9% al 6,4%.
Di qualche interesse sono pure le variazioni nel consumo di olio di oliva: nei paesi COI si è registrata una diminuzione dal 83,1% (1995-2002) all’81,4% (2003-2009).
Al contrario il consumo nei nuovi paesi produttori è passato dal 16,9% (1995-2002) al 18,6% (2003-2009).

Le differenze pedo-climatiche tra le zone di produzione (tradizionali e nuove) e le recenti preferenze varietali impiegate in alcuni paesi come Spagna, Israele e Australia, rendono oramai “opinabili” alcuni dei parametri di qualità e classificazione adottati dai maggiori paesi produttori.

È il caso dei livelli di acido linolenico e di campesterolo codificati dalla Comunità Europea con riferimento all’olio extravergine di oliva che, non a caso, sono stati oggetto di “osservazioni” da parte del governo degli Stati Uniti in occasione della notifica della bozza di nuova disciplina comunitaria sui marketing standard dell’olio di oliva al Comitato TBT (Technical Barriers to Trade) in base agli obblighi internazionali dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).

La querell, per ora rinviata, è presto spiegata e si riallaccia alla recente riforma della Politica Agricola Comune (PAC) introdotta con il Regolamento CE n. 1234/2007.

È noto che la PAC è sub iudice da quasi due decenni.
Recentemente, con l’adozione della cosiddetta OCM unica (Reg. n. 1234/2007) si sono poste le basi per perseguire alcuni obbiettivi fondamentali

  • semplificazione e tendenziale uniformazione, anche testuale, della disciplina delle 21 diverse OCM la cui disciplina essenziale rifluisce in un unico regolamento orizzontale;
  • rimodulazione del regime dell’intervento pubblico a sostegno dell’agricoltura;
  • ruolo crescente delle OP (organizzazioni dei produttori) nella regolazione del mercato e nella promozione della qualità;
  • nuova cornice per la predisposizione di regole di commercializzazione per alcuni prodotti agro-alimentari, tra cui l’olio di oliva;
  • moderno quadro legislativo per l’applicazione della disciplina della concorrenza al settore agricolo che, ancora oggi, gode di un regime speciale e in parte derogatorio rispetto alle altre attività economiche; e
  • regolamentazione dei flussi commerciali con i paesi terzi (import e export).

L’olio di oliva è uno dei tre settori (insieme con le banane, l’ortofrutta fresca e trasformata) rispetto ai quali la Commissione può adottare norme di commercializzazione (marketing standards) riguardanti, in particolare, la qualità, la classificazione, il peso, la calibrazione, il condizionamento, l’imballaggio, il magazzinaggio, il trasporto, la presentazione, l’origine e l’etichettatura.

Ciò si è tradotto nel Regolamento n. 182/2009 della Commissione che, modificando il precedente Regolamento n. 1019/2002, ha novellato le norme di commercializzazione dell’olio d’oliva, prevedendo inter alia l’obbligo di indicazione di origine per l’olio extra vergine di oliva e l’olio di oliva vergine offerti al consumatore finale.
Come riconosce la stessa Commissione infatti “le disposizioni facoltative applicate finora si sono rivelate insufficienti per evitare che i consumatori siano fuorviati circa le caratteristiche effettive degli oli vergini a questo riguardo” (v. cons. 2 del Reg. n. 182/2009).

Viene così accolto dal diritto comunitario il contenuto essenziale della legge italiana n. 313/1998 (Disposizioni per l’etichettatura d’origine dell’olio extravergine di oliva, dell’olio di oliva vergine e dell’olio di oliva).

Il regolamento n. 182 riconosce inoltre per tabulas che gli Stati membri possono vietare la produzione, sul loro territorio, delle miscele di oli di oliva e di altri oli vegetali per il consumo interno, mentre non possono vietare la commercializzazione, sul loro territorio, delle suddette miscele di oli provenienti da altri paesi, né vietare la produzione, sul loro territorio, di dette miscele ai fini della commercializzazione in un altro Stato membro o dell’esportazione.

Tra le modifiche apportate anche l’abrogazione del salvacondotto per i tagli di oli extra vergini di oliva o di oli di oliva vergini provenienti in misura superiore al 75% da uno stesso Stato membro o dalla Comunità rispetto ai quali era consentito indicare solo l’origine prevalente.

Inutile illudersi che queste nuove disposizioni risolveranno i problemi del settore né, tanto meno, che la lotta alle frodi acquisterà maggiore incisività.

Ben altre avrebbero dovuto essere le scelte e le decisioni politico-legislative.

Tuttavia nella direzione di una maggiore coerenza della nuova regulation di settore rispetto alle propagandate finalità di tutela della concorrenza leale (art. 1, Reg. CE n. 882/2004) e degli interessi del consumatore (art. 5 Reg. CE n. 178/2002) depone la nuova e più restrittiva disciplina sull’indicazione delle caratteristiche organolettiche; si tratta di menzioni quali intenso, medio, leggero, equilibrato, amaro, piccante, frullato, olio dolce, apposte sul prodotto finito.

Come si evince dal raffronto con la precedente disciplina (tav. 2), in forza del regolamento n. 182/2009 (in vigore dal 1° luglio 2009, salvo i tempi tecnici per lo smaltimento delle scorte) le indicazioni delle caratteristiche organolettiche relative al gusto e/o all’odore sono ammesse esclusivamente per gli oli extra vergini di oliva e gli oli di oliva vergini.

Inoltre la legittimità dell’impiego di questi claims dipenderà, anche, dalla previa valutazione di conformità svolta da un panel accreditato che deve operare secondo il metodo approvato dal COI per la valutazione organolettica degli oli d’oliva vergini (approvato con decisione n. DEC-21/95-V/2007 del 16/11/2007 e riportato nell’all. XII del reg. CE n. 2568/91).

In base al diritto comunitario, poi, questo metodo costituisce la procedura di riferimento obbligatoria per la valutazione delle caratteristiche organolettiche ai fini della corretta denominazione di vendita degli oli di oliva vergini (olio extravergine di oliva; olio di oliva vergine, olio di oliva lampante, vedi tav. 3).

È su questo elemento gli USA hanno insistito nelle loro osservazioni presentate alla bozza di regolamento sui marketing standard per l’olio di oliva (poi trasfuso nel Reg. CE n. 182/2009) all’interno del sistema di notifica previsto dall’OMC.

Da un lato, gli USA affermano che, non essendo più la produzione di olio di oliva confinata al Mediterraneo, un ampio insieme di fattori, nuove varietà vegetali, composizione del terreno di coltura e condizioni climatiche, produce un impatto sui parametri che tradizionalmente sono invalsi per la determinazione della qualità degli oli di oliva:

  • la composizione di acidi grassi,
  • il contenuto di steroli
  • e quello di acidi grassi saturi.

Per le produzioni provenienti dai nuovi mercati, il rispetto dei limiti fissati dalla legislazione CE andrebbe incontro a difficoltà tecniche che ne impedirebbero o renderebbero altamente difficoltosa la conformità.

Sotto un secondo profilo, riprendendo posizioni già espresse dai governi dell’Argentina e dell’Australia, gli USA controvertono sull’adeguatezza del limite relativo all’acido linolenico (1%) al fine di identificare e reprimere le frodi (ad esempio, questo parametro non sarebbe idoneo in alcune ipotesi di contraffazione consistenti in misture con particolari oli vegetali).
Metodi alternativi di investigazione e determinazione delle frodi sarebbero presenti sul mercato con effetti più incisivi.

Nella replica depositata presso il Comitato TBT dell’OMC, la CE ha giustamente richiamato il fatto che il foro competente a dibattere di questi aspetti è il Codex Alimentarius e in particolare il Comitato per i Grassi e gli Oli (Committee on Fats and Oils – CCFO) che, infatti, sta lavorando alla revisione dello Standard for Olive Oils and Olive Pomace Oil.

Si tratta di una procedura lunga ed articolata, la cui prossima scadenza è il 1° dicembre 2009, data ultima per la presentazione di commenti in merito alla rilevanza del limite dell’acido linolenico.

Si avvicina dunque un nuovo round nei negoziati per le nuove regole relative all’olio di oliva globalizzato.

avv. Daniele Pisanello

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